NONNA BETTA

Nonna Betta era mia nonna, non aveva fatto neanche le elementari e sapeva appena fare la sua firma, in cucina però aveva delle qualità e una presenza scenica che le davano un’autorevolezza indiscutibile. La nostra famiglia era molto allargata, nella casa di via del Portico d’Ottavia 21 c’erano quattro stanze: una per i nonni Umberto e Betta, una per lo zio Pucchio, uno dei quindici ebrei romani su duemila sopravvissuti allo sterminio, e zia Esther, una stanza per mio padre e mia madre e una per gli zii Gabriele, Lullo e Angelo. Zio Angelo veniva puntualmente dimenticato e quando tornava a casa per mangiare non sempre trovava qualcosa ma, se arrivava in tempo, mia nonna agitava il piatto avanti e indietro per far sembrare più abbondanti le porzioni.Dopo centinaia di anni vissuti da romani, quali erano, con gli altri romani di religione diversa, gli ebrei si ritrovarono così, da un giorno all’altro, chiusi in un recinto di circa tre ettari di superficie sulle sponde del Tevere con il divieto assoluto di esercitare qualunque professione ad eccezione del commercio degli stracci, degli oggetti e dei vestiti usati.

NONNA BETTA

Nonna Betta era mia nonna, non aveva fatto neanche le elementari e sapeva appena fare la sua firma, in cucina però aveva delle qualità e una presenza scenica che le davano un’autorevolezza indiscutibile. La nostra famiglia era molto allargata, nella casa di via del Portico d’Ottavia 21 c’erano quattro stanze: una per i nonni Umberto e Betta, una per lo zio Pucchio, uno dei quindici ebrei romani su duemila sopravvissuti allo sterminio, e zia Esther, una stanza per mio padre e mia madre e una per gli zii Gabriele, Lullo e Angelo. Zio Angelo veniva puntualmente dimenticato e quando tornava a casa per mangiare non sempre trovava qualcosa ma, se arrivava in tempo, mia nonna agitava il piatto avanti e indietro per far sembrare più abbondanti le porzioni.Dopo centinaia di anni vissuti da romani, quali erano, con gli altri romani di religione diversa, gli ebrei si ritrovarono così, da un giorno all’altro, chiusi in un recinto di circa tre ettari di superficie sulle sponde del Tevere con il divieto assoluto di esercitare qualunque professione ad eccezione del commercio degli stracci, degli oggetti e dei vestiti usati.

La casa era piena di vita e di caciara e c’erano sempre discussioni per chi “spicciava”, per chi rimetteva a posto dopo i pasti. Queste discussioni continuarono anche quando i vari zii e le relative famiglie se ne andarono di casa perché il venerdì sera, per celebrare l’arrivo dello Shabbàt, si stava a cena tutti insieme, con tavolate di una ventina di persone in media. Mia madre non aveva voluto lasciare i suoi genitori, abbiamo vissuto con i nonni fino all’ultimo, per questo il fardello del riordino ricadeva su mia madre, che si arrabbiava, perché nonna Betta era forte a cucinare ma era disordinata oltre l’immaginabile.

La casa era piena di vita e di caciara e c’erano sempre discussioni per chi “spicciava”, per chi rimetteva a posto dopo i pasti. Queste discussioni continuarono anche quando i vari zii e le relative famiglie se ne andarono di casa perché il venerdì sera, per celebrare l’arrivo dello Shabbàt, si stava a cena tutti insieme, con tavolate di una ventina di persone in media. Mia madre non aveva voluto lasciare i suoi genitori, abbiamo vissuto con i nonni fino all’ultimo, per questo il fardello del riordino ricadeva su mia madre, che si arrabbiava, perché nonna Betta era forte a cucinare ma era disordinata oltre l’immaginabile.

Un ricordo netto che ho è l’immagine di mia nonna seduta al centro della piccola cucina, il sole che entra dalla finestra alla sua destra, con indosso una parannanza, una cesta di carciofi da una parte e una bacinella dall’altra, che capava* con disinvoltura e metodo quantità incredibili di carciofole (in giudaico-romanesco si chiamano così e nonna betta parlava così).

Si sentiva un “frr frr” e lo schioccare secco delle foglie più dure che volavano via (poi parleremo di come si prepara il carciofo alla giudìa) e si depositavano tutte intorno a lei sul pavimento, tanto poi ripuliva mia madre, una specie di monumento al valore, un’isola in un mare di foglie che odoravano di verde.

Un ricordo netto che ho è l’immagine di mia nonna seduta al centro della piccola cucina, il sole che entra dalla finestra alla sua destra, con indosso una parannanza, una cesta di carciofi da una parte e una bacinella dall’altra, che capava* con disinvoltura e metodo quantità incredibili di carciofole (in giudaico-romanesco si chiamano così e nonna betta parlava così).

Si sentiva un “frr frr” e lo schioccare secco delle foglie più dure che volavano via (poi parleremo di come si prepara il carciofo alla giudìa) e si depositavano tutte intorno a lei sul pavimento, tanto poi ripuliva mia madre, una specie di monumento al valore, un’isola in un mare di foglie che odoravano di verde.