la possibilità di fare teshuvà è uno dei fondamentali dell’ebraismo. l’uomo ha in sé una scintilla divina che si manifesta nel suo libero arbitrio che può utilizzare per imitare e per cercare dio. oppure può decidere di assecondare i suoi istinti più bassi e trasgredire. a volte si fanno scelte coscienti, altre volte si agisce attratti da una specie di calamita. gli istinti animali lo controllano e l’uomo non utilizza la sua libertà di scelta, anzi diciamo che sceglie di non scegliere. il risultato è lo svilimento, impurità e trasgressione.
quando questo succede l’uomo può rotolarsi nell’abiezione e affondare a livelli sempre più bassi o può scegliere di spezzare questo vortice e mettersi a cercare dio. a volte possiamo trovare una calamita diversa che ci attrae verso dio e ci allontana dalla nostra inconsistenza e dalla sofferenza spirituale. questo processo si chiama teshuvà.
ma la teshuvà si può fare sempre? è un diritto inalienabile? possiamo sempre fare ritorno o l’abisso può diventare così profondo da escludere ogni possibilità di ritorno? la questione è discussa nel talmud:
“chiunque vada con lei non può fare ritorno né percorrere il sentiero della vita (mishlè 2:19) ma se non fanno teshuvà non possono tornare sul sentiero della vita. che cosa significa che se anche si pentono non possono ritornare sul sentiero della vita? che anche se rifiuta l’idolatria è destinato a morire? [avodà zarà 17a]
il talmud ci insegna che non tutte le trasgressioni possono essere cancellate, la cicatrice dello spirito può essere così profonda che il semplice pentimento può non essere sufficiente, il pentito morirà nonostante la penitenza. perché pentirsi dunque se a questo seguirà la morte?
rashì affronta la questione e offre un nuovo interessante punto di vista: la morte, in questi casi, non è detto che sia una punizione ma, per chi si pente, il risultato di una lotta interiore tra il bene e il male. questa lotta per distruggere il potere della cattiva inclinazione, che ha ottenuto una serie di vittorie, mette a dura prova le risorse spirituali a tal punto, che la persona ne muore.
mentre la morte può essere vista come risultato del pentimento, la morte stessa può portare il perdono e al pentito viene assicurato un posto nel mondo a venire. infatti diverse fonti, in molti casi, considerano la morte un aspetto necessario del perdono.
rabbi matthia ben heresh chiese a rabbi eleazar ben azariah a roma: hai sentito dei quattro tipi di trasgressione nel discorso di rabbi ishmael? egli rispose: sono tre e a ognuna è legata una forma di pentimento. se si trasgredisce una mizvà positiva e ci si pente si è perdonati prima che si ci muova dal proprio posto; come è detto “ritorna, oh figlio caduto” (yirmiyahu 3:14). se si trasgredisce e ci si pente, il pentimento sospende la pena e il giorno del perdono porta il perdono come è detto “in quel giorno ci sarà per voi il perdono… per tutte le vostre trasgressioni (Vayikra 16:30). se ha commesso una trasgressione punibile con il charèt o con la morte per mezzo del bet din e si pente, il pentimento e il giorno dell’espiazione sospendono la punizione e la sofferenza conclude l’espiazione, come è detto: “li affliggerò per le loro trasgressioni con il bastone e le loro iniquità con colpi” (tehillim 89:43).
ma se ha profanato il nome, la penitenza non ha la capacità di sospendere la punizione né il giorno del perdono di portare il perdono, né le sofferenze di fermarla. ma tutte queste cose insieme sospendono la punizione e solo la morte conclude il processo, come è detto: il dio delle schiere si è rivelato alle mie orecchie, certo questa iniquità non sarà espiata fino a che non morirai (yomà 86a).
la trasgressione e il piacere che l’accompagna danneggiano lo spirito. certe forme di espiazione servono a ricreare un equilibrio tra lo spirito e il corpo. ogni trasgressione richiede un certo tipo di espiazione. la peggiore delle trasgressioni – la profanazione del nome di dio – può essere espiata solo con la morte.
il talmud continua raccontando la storia di una donna che, apparentemente, tra le tante trasgressioni commesse, è colpevole di idolatria:
non era questa la donna che venne da rav hisdà a confessare che la trasgressione più leggera che aveva commesso era che il figlio minore era stato generato dal figlio maggiore? al che rav hisdà disse: affrettatevi a prepararle il sudario ma lei non morì. ora, dal momento che lei si era riferita a questa immoralità come la più leggera delle sue colpe, si può supporre che praticasse anche l’idolatria – e non era morta! – e che un pentimento inappropriato era il motivo del fatto che non era morta (avoda zarà 17a).
la tesi del talmud rimane: il pentirsi dell’idolatria provoca la morte come espiazione. in questo caso il talmud insiste nel dire che la sua colpa era effettivamente l’idolatria ma il suo pentimento non era né completo né sincero. perciò la morte non può seguire immediatamente per garantire l’espiazione che non arriva per mancanza di pentimento.
il talmud racconta un’altra versione di questa storia:
è solo con il pentimento dall’idolatria che si muore ma non per altre trasgressioni. non era questa la donna che venne da rav hisdà che disse: affrettatevi a prepararle il sudario e lei morì? Dal momento che aveva definito la sua colpa la più leggera si può presumere che fosse dedita anche all’idolatria. la donna morì e la tesi del talmud secondo cui il pentimento dall’idolatria causa la morte è mantenuta.
il talmud prosegue indagando se l’idolatria sia l’unica offesa che porta alla morte raccontandoci una storia incredibile: nessuno muore se rinuncia alle sue trasgressioni tranne che per l’idolatria.
è stato insegnato: è stato detto di rabbi eleazar ben dordaia che non rinunciava a nessuna prostituta al mondo e andava con lei. una volta sentì di una prostituta in una città del mare che accettava una borsa di monete per il suo lavoro. lui prese una borsa di monete e attraversò sette fiumi per lei. quando fu con lei, la donna emise dell’aria e disse: “così come questo soffio d’aria non tornerà al suo posto così il pentimento di eleazar ben dordaya non sarà mai accettato.
allora lui se ne and e si sedette tra due colline e disse: “oh colline e montagne chiedete la grazia per me” e queste replicarono “come possiamo? dobbiamo pensare a noi stesse come è detto “perché le montagne e le colline saranno rimosse” allora lui esclamò “cielo e terra chiedete perdono per me” e anche questi replicarono “come possiamo farlo, dobbiamo pensare a noi stessi come è detto “perché i cieli svaniranno come fumo e la terra si consumerà come un vestito” allora lui esclamò “sole e luna chiedete perdono per me” ma anche questi risposero “come possiamo? come è detto “si confonderà la luna e il sole si vergognerà” allora lui si rivolse alle stelle e alle costellazioni che gli risposero “come possiamo aiutarti che dobbiamo pensare a noi stesse” come è detto “e le popolazioni dei cieli si sgretoleranno”.
allora dordaya disse “dunque la cosa dipende da me soltanto” e mise la testa tra le ginocchia, pianse forte fino a che la sua anima non lo abbandonò. quindi una voce dal cielo proclamò “rabbi eleazar ben dordaya è destinato per la vita nel mondo a venire”.
ecco questo era un caso di trasgressione diverso dall’idolatria eppure cordaia morì! sì ma in questo caso egli era talmente immerso nell’immoralità come se avesse fatto idolatria. rabbi sentendo tutto questo scoppiò a piangere e disse “c’è chi si conquista la vita eterna dopo molti anni e chi in una sola ora. e aggiunse “non solo chi si pente viene accettato, è addirittura chiamato rabbi” [avoda zarà 17a].
abbiamo sentito di uno che trasgrediva abitualmente che, sorprendentemente, viene chiamato rabbi anche se questo appellativo non è compatibile con il suo comportamento. leggendo attentamente questo passaggio notiamo che l’appellativo gli viene dato postumo e solo retrospettivamente. durante la sua vita in realtà questo uomo era stato un trasgressore, non aveva insegnato né studiato. la sua unica preoccupazione era di soddisfare i suoi sordidi desideri. solo in punto di morte diventa rabbi. la storia però rimane poco chiara comunque.
che senso ha il comportamento bizzarro della prostituta? e perché dice quello che dice? perché dordaya la prende così sul serio? qual è il senso della sua conversazione con le montagne e le colline, il sole la luna e le stelle? perché merita di essere chiamato rabbi? e infine perché muore?
che si consideri il suo dialogo con le montagne e le colline reali o immaginario questo ci dà un’affascinante descrizione di che cosa non è la teshuvà. il rifiuto della sua appassionata preghiera ci fa comprendere che la risposta alle preghiere dell’uomo non sta nelle forze della natura. quando arriva il momento della teshuvà, del pentimento, del ritorno la natura non può aiutare l’uomo.
l’immagine è chiara: c’è un uomo che soccombe alla sua stessa natura. vuole decidere che tipo d’uomo essere e le forze della natura non possono portarlo a dargli un sollievo spirituale. il messaggio è essenziale per comprendere che la dinamica della teshuvà non ha niente a che fare con le cose mondane, il segreto della teshuvà non si trova all’interno del cosmo. la teshuvà è metafisica.
è stata creata prima del mondo fisico. la teshuvà è un ritorno a dio. così come dio trascende lo spazio e la materia, l’uomo che stabilisce una relazione con dio trascende il suo passato. questo concetto può essere descritto usando una formula matematica: infinito più infinito uguale infinito. la realtà è dio, solo questa realtà infinita esisteva prima della creazione del nostro mondo fisico e limitato. l’unico aspetto “reale” della nostra esistenza è quello in relazione con la realtà infinita di dio.
l’essere finito, l’uomo, che ha un rapporto con il dio infinito può andare oltre i limiti del tempo e dello spazio e trascendere gli errori del passato. ciò che è reale è l’essere in relazione con dio.
eleazar si avvicina alla natura ma i suoi sforzi sono vani. per quanto riguarda la natura, l’uomo può smettere oggi di fare quello che faceva ieri, si può riabilitare ma la teshuvà, una pulizia e una guarigione metafisica non è però possibile.
torniamo alla prima parte della storia. nel momento culminante la donna non trattiene un peto, allora guarda il suo cliente e gli dice “così come questo soffio d’aria non tornerà al suo posto così il pentimento di eleazar ben dordaya non sarà mai accettato”. il suo comportamento e le sue parole sono strane.
per caso lei discute dello stato spirituale di tutti i suoi clienti? questo servizio è incluso nel prezzo? la parola usata nel testo è heficha, rashì spiega che un vento (o spirito in ebraico ruach) uscì fuori. la prima volta che la troviamo la radice di questa parola nella torà è quando all’uomo viene data l’anima.
“…e il signore formò l’uomo con la polvere della terra e gli soffiò (vayipach) nelle narici il soffio vitale. e l’uomo divenne un’anima vivente. (bereshit 2:7)
sembra che la donna gli stia dicendo “la tua anima si è sporcata in modo irrimediabile”. le sue motivazioni sono oscure. forse, abituata ad avere un controllo completo del proprio corpo che improvvisamente e inaspettatamente perde, la mette in condizione di riconoscere che eleazar, allo stesso modo, è fuori controllo.
questo sciocca eleazar che ha sempre pensato di potersi redimere prima o poi, che in fondo non era così malvagio. egli probabilmente raccontava a se stesso di essere un buon diavolo a cui piaceva divertirsi un po’, senza rendersi conto di quanto la sua spiritualità a lungo andare si fosse deteriorata.
pensava che avrebbe potuto redimersi in qualsiasi momento, si considerava accettabile nonostante tutto. improvvisamente questa donna che ride cinicamente di lui gli fa capire di essere senza speranza. questo semplice pensiero lo devasta e lo fa decidere in quel preciso momento di cercare un cambiamento.
cerca una via di ritorno ma gli viene detto che la sua degenerazione è senza speranza. potrebbe essere questo il significato del suo nome ben durdaya – il figlio della hitdardarut – colui che si deteriora e si deteriora fino a che tutto sembra perduto.
il suo nome eleazar però significa “dio può aiutare”. non importa quanto si è rovinato, rimane sempre eleazar, dio può sempre aiutare. quando si allontana dalla prostituta, separandosi dalla sua trasgressione, va in cerca della purità non di una semplice riabilitazione. vuole riconquistare la purità dell’anima com’era al giorno della nascita. si rivolge alla natura per cercare di rimettere indietro le lancette dell’orologio ma gli rispondono che la sua è una richiesta impossibile. la natura non può né controllare né incidere sul passato.
quando prega la natura eleazar ripetutamente supplica: chiedete grazia per me” la parola ebraica è rachamim.
la radice di questa parola è rechem che significa anche utero: rachmanut è il tipo di amore che una madre ha per il figlio ed è quasi illimitato. ma quando ci ricordiamo che stiamo parlando di un uomo che ha avuto una quantità innumerevole di donne, capiamo che si sta parlando dell’oggetto e della natura della sua trasgressione, vuole tornare a quando era puro, vuole tornare al giorno della sua nascita per ricominciare da capo. vuole la purità.
quest spiega le azioni successive: “mise la testa tra le ginocchia, pianse forte fino a che la sua anima non lo abbandonò”. Eleazar assume ulna posizione “fetale” e piange fino a che l’anima non lo abbandona. simbolicamente inverte il processo di nascita e vita nello sforzo di ottenere la purità d’animo che aveva quando era nato, un’anima nuova di zecca.
nonostante la natura lo respinga, sa che possiede dentro di sé la capacità di trovare pace e serenità e dice “la cosa dipende da me soltanto” il “me” è eleazar, l’individuo che dio può aiutare nonostante la sua abiezione, l’individuo che ha un’anima divina, non importa quanto si sia sporcata, quanto sia degenerata: quest’uomo ha sempre la possibilità di fare teshuvà.
questo è il motivo per cui viene chiamato “rabbi”: ci insegna una lezione importante, che la teshuvà è sempre possibile anche se il risultato è la morte della persona. non si lascia convincere dagli scettici a lasciare il sentiero della santità e non consente ai suoi anni di corruzione di impedirgli la ricerca della santità, non permette al suo passato di distruggere il suo futuro. in un glorioso momento finale capisce perché è nato e cerca dio con tutto il suo cuore e tutta la sua anima fino al punto di perdere la vita.
sebbene il suo sia un grande gesto e la sua decisone ammirabile perché è dovuto morire? il talmud dice che il suo livello di corruzione morale era tale, la sua autoindulgenza così esagerata e sempre pronta ad autoperdonarsi che era come se fosse un idolatra. adorava la propria lussuria con tutto il suo cuore e tutta la sua anima e tutti i suoi averi.
voleva attraversare i sette fiumi, prese tutto il denaro necessario perché la sua anima era consumata dalla sua dipendenza. per poter guarire ha bisogno delle stesse forze, adesso vuole servire dio con tutto il suo cuore e tutta la sua anima e tutti i suoi averi.
probabilmente questa ribaltamento, questa inversione di forze è la probabile causa della sua morte. Forse la sua morte è in effetti una atto di grazia da parte di dio, perché un uomo così corrotto che raggiunge un così alto livello spirituale è davvero impressionante.
ma come avrebbe potuto comportarsi un uomo del genere, nella vita di tutti i giorni? con la sua dipendenza e il suo istinto soggiocati o messi sotto controllo che cosa sarebbe stata la sua vita? sarebbe stato in grado di resistere questa sua nuova spiritualità di fronte a una qualsiasi cosa materiale? o la morte è una fuga?
forse l’unico modo per ottenere una parte nel mondo a venire, era la dipartita da questo mondo nel momento del suo culmine spirituale in cui piange e riconquista la purità originale.
la teshuvà è sempre possibile, nonostante che a volte gli effetti di una trasgressione siano così profondi che non possono essere risollevati e soltanto la morte può portare l’espiazione e il perdono.
il messggio di questa storia è profondo, l’insegnamento di rabbi eleazar ben dordaya è che la teshuvà è sempre accessibile, la purità è sempre possibile e che una parte nel mondo si può sempre ottenere. anche per il peggiore e il più tremendo dei peccatori.
chatimà tovà
