nel ghetto di roma, nei ristoranti ebraici, oltre che di kasher o kosher, di cucina giudaico-romanesca, di carciofi alla giudìa, si discute dei temi che la lettura settimanale della torà suggerisce o dei significati delle varie festività e della loro attualizzazione nella vita di ogni giorno.
“poiché è assurdo e sconveniente al massimo grado che gli ebrei, che per loro colpa sono stati condannati da Dio alla schiavitù eterna, possano, con la scusa di essere protetti dall’amore cristiano e tollerati nella loro coabitazione in mezzo a noi, mostrare tale ingratitudine verso i cristiani ad oltraggiarli per la loro misericordia e da pretendere dominio invece di sottomissione: e poiché abbiamo appreso che, a roma ed in altre località sottoposte alla sacra romana chiesa, la loro sfrontatezza è giunta a tanto che essi si azzardano non solo di vivere in mezzo ai cristiani, ma anche nelle vicinanze delle chiese senza alcuna distinzione di abito, e che anzi prendono in affitto delle case nelle vie e nelle piazze principali, acquistano e posseggono immobili, assumono donne di casa, balie ed altra servitù cristiana, e commettono altri e numerosi misfatti a vergogna e disprezzo del nome cristiano, ci siamo veduti costretti a prendere i seguenti provvedimenti […]”.
forse non tutti sanno che il ghetto sul tevere – prima di diventare il posto ideale per mangiare la cucina giudaico-romanesca kosher – venne edificato nel 1555 per volere di papa paolo IV carafa con la bolla “cum nimis absurdum”. l’intento, probabilmente, era di arginare gli effetti della migrazione degli ebrei scacciati dal regno di sicilia e poi dal regno di napoli e si riversarono a roma (nella foto l’originale dell’editto d’espulsione dal regno di spagna con cui nel 1492 furono espulsi da 150.000 a 200.000 ebrei).
quel papa riteneva che fosse assurda la mescolanza di ebrei e cristiani, perciò decise di rinchiudere gli ebrei di roma nei tre ettari di fronte all’isola tiberina. dai portoni del ghetto si poteva uscire all’alba ma si doveva rientrare prima del tramonto se no, erano bastonate. per evitare di confondersi gli ebrei dovevano portare un segno distintivo (i nazisti con la stella gialla recuperano uno dei segni imposti dal papato) che in ebraico si chiama “simàn” e che in giudaico romanesco diventa “sciamanno”. per le donne ebree lo sciamanno, in un determinato periodo, era costituito da un grosso foulard arancione (quello delle prostitute era dello stesso colore, per intenderci…) e veniva indossato, ovviamente, di mala voglia e in modo palesemente disordinato per dimostrare questo rifiuto. ecco perchè indossare lo sciamanno in modo trasandato ha dato origine al termine giudaico-romanesco “sciamannato” che poi è entrato a far parte della lingua italiana.
i provvedimenti imposti dalla “cum nimis absurdum” stabilivano in particolare che da allora in poi gli ebrei avrebbero dovuto:
abitare in una strada (o all’occorrenza in più strade) separata dalle case dei cristiani e munita di un portone di chiusura;
che in ogni ghetto non potesse esistere più di una sinagoga;
che gli ebrei dovessero vendere tutti gli immobili posseduti fino ad allora, ai cristiani.
veniva inoltre imposto il rigoroso rispetto del segno distintivo per uomini e donne, e il divieto di avere servitù cristiana e rapporti con i cristiani.
altre gravi restrizioni riguardavano i mestieri consentiti (riciclo e vendita di abiti usati) e l’interesse che si poteva percepire per il prestito.
