nei i quarant’anni di peregrinazioni nel deserto, dopo l’uscita dalla schiavitù d’egitto, gli ebrei vissero nelle capanne e durante i loro spostamenti la nuvola della presenza divina li proteggeva e li accompagnava indicando loro il percorso.
ancora oggi gli ebrei di tutto il mondo si costruiscono delle capanne in ricordo di questo evento e vi trascorrono il maggior tempo possibile, qualcuno ci dorme, i più ci consumano i pasti principali. alla capanna si attribuisce un significato legato al senso di precarietà, le regole per la sua costruzione sono molto rigide e vanno in questa direzione: si deve abbandonare la sicurezza e la stabilità delle nostre case per abitare – per otto giorni – in questi ricoveri temporanei e strutturalmente precari, attraverso i quali si devono poter vedere le stelle.
nella discussione che fa la mishnà – la legge orale – viene riportato però il parere di rav yehudà che sostiene una tesi diametralmente opposta: la sukkà dovrebbe essere stabile. una tesi di minoranza, la sua.
di minoranza ma illuminante: che cos’è la stabilità? che cos’è la sicurezza? se le capanne simboleggiano la protezione divina allora rav yehudà forse vuole dirci che dovremmo ricercare altrove, dovremmo riuscire a sentire la presenza protettiva di dio come l’unica forma di stabilità e di sicurezza possibili.
adesso che sta per finire sukkòt. con l’augurio che questa sensazione si prolunghi il più possibile.
