Sembra una piccola differenza ma è una sfumatura che porta con sé una serie di gustose conseguenze. Nonna Betta, oltre a essere l’unico ristorante con un vero ebreo romano dentro, è anche l’unico che si trova in un edificio che, al tempo in cui esisteva il Ghetto, c’era già.
C’è una foto famosa di via della Pescheria, uno dei confini esterni del Ghetto, presa proprio all’altezza di Nonna Betta. La cosa ha tratto in inganno molti ma via della Pescheria era fuori dal Ghetto e dei muri, dei portoni che si aprivano all’alba e si chiudevano al tramonto e delle case non rimane più niente, tutto completamente raso al suolo alla fine dell’800.
Se capitate da Nonna Betta chiedete di vedere questa foto molto suggestiva che mostra il Portico d’Ottavia sommerso tra le costruzioni, i negozi, i banchi di marmo per la vendita del pesce e le abitazioni ma soprattutto il livello del degrado che lo caratterizzava. Si vedono le case fatiscenti addossate l’una all’altra con stanze sporgenti e tettoie di legno, i panni stesi, i sanpietrini bagnati come sempre per gli allagamenti che subiva in particolare quest’area troppo vicina al Tevere.
È un’instantanea che coglie un momento di vita, di una vita meschina ben oltre la soglia di povertà. C’è una donna al ridosso del muro – tiene in braccio un fantolino col capo coperto da una cuffietta bianca – che chiacchiera con una vicina di cui si intravede mezza faccia e il braccio piegato col pugno poggiato sul fianco nella posa tipica delle popolane; all’angolo una colonna romana – parte del colonnato del Portico d’Ottavia – inglobata in un edificio e a fianco due colonnine che impediscono il passaggio delle carrozze. Tre le due colonnine una donna con una lunga gonna ha, tra le braccia, un mucchio di stracci e sembra accennare a un saluto alle due donne col bambino che chiacchierano. Sulla sinistra un cane randagio che viene verso l’obbiettivo come la donna degli stracci che saluta mentre avanza. Sullo sfondo una piccola folla di tre uomini e una donna che avanza dal Portico d’Ottavia che ospitava il mercato del pesce e, oltre la via del foro piscario che arrivava fino al Teatro di Marcello che giaceva ancora per due terzi sotto il livello stradale. Su tutto un cielo bianco latte che contribuisce a dare al tutto un’aria spettrale. Poi il Ghetto fu demolito e gli ebrei romani liberati dopo oltre 300 anni di chiusura e separazione.
Io mi chiamo Umberto, mio fratello si chiama Vittorio Emanuele perché “rilevàmmo” il nome dei nostri nonni, quello materno e quello paterno, nati alla fine dell’800 o ai primi del ‘900, primi bambini ebrei romani nati liberi dopo la lunga e avvilente segregazione. Oggi sul quartiere dell’ex Ghetto splende il sole.
